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31 maggio 2009 7 31 /05 /maggio /2009 18:44


 



Non condividere ideali con chi

non li ha condivisi con te in passato,

stai certo che ti tradirà.

 




 

Il 22 maggio 1988 Giorgio Almirante si spegne nella clinica di Villa del Rosario dopo una più che quarantennale attività politica spesa in difesa della destra democratica. La sua morte segna la fine di un’era politica, l’era del proporzionale e dei grandi uomini come lui e Berlinguer, del quale volle a tutti i costi presenziare al funerale nonostante molti la considerassero una pura provocazione.

 

Ma Almirante era questo. Se ne infischiava delle convenzioni e pur fiero del suo indiscutibile retaggio fascista (molti ricordano un congresso MSI in cui replicò all’ospite Pannella che lo metteva in dubbio, “il fascismo è in questa sala”), aveva il massimo rispetto per i suoi avversari e per le regole democratiche in generale. A lui si deve infatti la salvezza di molti giovani “duri e puri”, che al terrorismo rosso degli anni 70-80 intendevano contrapporre la stessa lotta violenta, e che invece impararono a non odiare e a difendere le proprie idee con la parola e non con le armi.

 

Ma cosa rappresentò veramente Almirante per chi si sentiva di destra negli anni 70-80? In un’epoca in cui professarsi di destra equivaleva a scavarsi la fossa, o quantomeno a essere derisi dall’intellighenzia dominante; in un’epoca in cui la scuola e l’università imponevano il pensiero unico post-sessantottino impostato sulla retorica partigiana, l’MSI di Almirante isolato nel ghetto imposto dall’arco costituzionale era la vera scelta anticonformista. La scelta di chi era di destra e voleva gridarlo forte, proprio come faceva la cosiddetta sinistra illuminata. La scelta infine di tutti quei liberal-montanelliani che pure non volevano turarsi il naso, e non erano disposti a votare DC neanche per impedire l’ascesa del Partito Comunista.

 

Per alcuni fu solo un voto di protesta, altri invece ci credettero davvero; ma per tutti Almirante fu l’uomo dall’eloquio imbattibile, perché quando parlava lui non volava una mosca, e se dietro le spalle lo chiamavano fascista o “fucilapartigiani” (soprannome affibbiatogli da Mario Capanna), alle tribune elettorali lo temevano e rispettavano, giacché coglierlo in fallo era impossibile.

 

Luca Landoni. La storia sottovoce

 

Almirante e Berlinguer: quegli incontri segreti
Sei colloqui riservati, negli anni di piombo, che nessuno ha mai raccontato.

di SEBASTIANO MESSINA



Se oggi la destra postfascista e la sinistra postcomunista possono darsi atto reciprocamente del fatto che ormai condividono gli stessi princìpi democratici, lo si deve a una lunga storia di tabù infranti e di gesti coraggiosi. Una storia che cominciò vent'anni fa, con una vicenda che è stata custodita così gelosamente da essere tuttora ignorata perfino da quasi tutti i dirigenti dei due partiti. Per sei volte, tra il 1978 e il 1979, mentre il piombo dei terroristi rossi e neri teneva l'Italia sotto una cappa di terrore e di sangue, Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante si incontrarono segretamente. Per sei volte si videro, senza che nessuno lo sapesse, in una stanza all'ultimo piano del palazzo di Montecitorio. Fu lì che cominciò il disgelo umano tra i due leader, fu lì che ciascuno dei due potè saggiare la lealtà dell'avversario.

Solo quattro uomini sono stati testimoni di quegli incontri riservatissimi, e tre di loro ormai sono morti. Il quarto, l'ultimo, ne parla per la prima volta oggi, vent' anni dopo. E' Massimo Magliaro, il giornalista che fu per 18 anni consigliere e collaboratore di Giorgio Almirante, diventandone il suo portavoce e la sua ombra. 
"La prima volta - ricorda - ebbi l'impressione che si incontrassero per caso, che non ci fosse un appuntamento. Era un venerdì sera, la Camera era ormai deserta e in quel corridoio che portava alla commissione Esteri eravamo in quattro: Berlinguer e Tonino Tatò da una parte, Almirante ed io dall'altra. I due segretari si avvicinarono lentamente, si strinsero la mano con un sorriso un po' timido e poi si appartarono dietro una porta, su un divano di pelle. Io e Tatò restammo fuori, a discutere del più e del meno. Lui stava da una parte, io dall'altra, lui era un rosso e io un nero, avevamo poco da dirci: il tempo, il traffico, il campionato. Almirante e Berlinguer, invece, potevano permettersi di allontanarsi per un'ora dalle rispettive trincee e affrontare insieme, senza che nessuno lo sapesse, l'argomento che ossessionava tutti e due: il terrorismo".

 

Quello che i due leader si dicevano, oltre quella porta, forse non lo sapremo mai. Magliaro ammette di non aver ricevuto una sola confidenza, sul contenuto dei colloqui. "Ricordo solo che quella volta Almirante mi confidò: "Quell'uomo è un avversario leale e corretto". Non mi disse neppure che ci sarebbero stati altri incontri". Ce ne furono altri cinque, sempre nello stesso luogo, e sempre di sera, quando il palazzo si era già svuotato. "Ricordo che sceglievano il lunedì, quando il grosso dei deputati non era ancora arrivato, o il venerdì, quando erano già ripartiti tutti per i collegi". Non fu il caso, a decidere gli altri colloqui: "Si davano degli appuntamenti, forse per telefono, e mai attraverso altre persone: io stesso, che stavo tutto il giorno accanto al segretario, lo sapevo all'ultimo momento, quando vedevo arrivare gli altri due".

 

Perché dovevano restare segreti, quegli appuntamenti? "Erano altri tempi" risponde secco Magliaro. Già. Rossi e neri si scontravano nelle piazze, c'era il muro contro muro, molti non avrebbero capito perché il capo della destra doveva incontrare il capo della sinistra, e viceversa. In quei due anni, tra il 1978 e il 1979, l'attacco del terrorismo raggiunse la massima intensità: 4892 attentati, 59 assassinii e 155 ferimenti, quasi il doppio di fatti di sangue rispetto ai due anni precedenti. Dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, c'erano stati gli agguati mortali al giudice Emilio Alessandrini e all'operaio Guido Rossa, al colonnello Antonio Varisco e al dirigente della Fiat Carlo Ghiglieno. Brigate Rosse e Prima Linea erano i gruppi più attivi, con 218 attentati, ma anche i neri si facevano sentire: i Nuclei Armati Rivoluzionari rivendicarono 16 assalti, e altri 6 furono firmati da "Siam Fascisti". 

Almirante non se ne dava pace. Intervistato da Paolo Guzzanti per "Repubblica", dichiarava: "I terroristi sono i nostri peggiori nemici. Per loro non ho che una parola: pena di morte. E se uscisse veramente fuori che una strage è opera di estremisti di destra, non mi basterebbe una sola pena di morte: ne vorrei due. Il mio personale estremismo consiste in questo: nell'essere pronto a liquidare, non fisicamente, si capisce, chiunque nel nostro partito dia segno di guardare con occhio benevolo i terroristi". I bombaroli neofascisti l'avevano capito, e glielo avevano fatto sapere. Il segretario teneva sulla sua scrivania, sotto un fermacarte di pelle, una cartolina postale speditagli dal carcere di Portoferraio: "Sei stato condannato a morte". Firmato: "Mario Tuti".

A Magliaro, una volta spiegò: "Vedi, io ho vissuto la guerra civile italiana. E' stato allora che ho imparato a camminare radente i muri e ad ascoltare i passi alle mie spalle. Ecco, questo paese non può permettersi un'altra guerra civile. Per la semplice ragione che non ha nel suo sangue gli anticorpi per sopravvivervi". Berlinguer, il comunista, il nemico, aveva ai suoi occhi il merito di essersi schierato nettamente e con coraggio contro i terroristi rossi. E dopo quei sei colloqui segreti, Almirante volle dargliene un pubblico riconoscimento: "Voglio essere onesto - disse in un'intervista - io non credo che il Pci alimenti il terrorismo...".

 

Anche Berlinguer, probabilmente, credette nella buona fede del suo avversario. Anche lui voleva mettere fine alla stagione dell'odio tra i giovani di destra e di sinistra, e infatti compì un gesto che suscitò un'enorme impressione nel Msi. Quando seppe che un ragazzo di vent'anni, Paolo Di Nella, era stato ucciso a Roma mentre attaccava manifesti del Fronte della Gioventù, mandò alla famiglia un messaggio che conteneva "il commosso compianto dei comunisti per il vostro giovanissimo Paolo, vittima di una aggressione disumana". Un telegramma, certo, ma un telegramma più pesante di una svolta.

 

 

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